L’Italia ha da tempo la maglia nera per la lentezza dei processi. L’Ocse ha recentemente comunicato i tempi per le cause civili: nel 2010 si sono impiegati nel nostro Paese 564 giorni per il primo grado, contro una media di 240 giorni e contro i 107 giorni del Giappone, che ha invece la giustizia civile più veloce del mondo.
Il tempo medio stimato per la conclusione di un procedimento nei tre gradi di giudizio è di 788 giorni. Con un minimo di 368 in Svizzera e un massimo di quasi 8 anni in Italia. Questo nonostante si tratti di due Paesi, evidenzia l’Ocse, che destinano al sistema giudiziario la stessa quota di Pil, lo 0,2%.
Oggi Angelo Panebianco sul “Corriere” auspica una riforma della giustizia che guardi agli interessi del Paese e non a quello degli schieramenti politici. Il corsivista parte da una premessa secondo la quale la magistratura, in quanto unico potere forte esistente in Italia, difficilmente si farà imporre una riforma dal potere debole della politica. Panebianco sostiene anche che i magistrati tuttalpiù potranno accettare una riduzione dei tempi delle cause civili, ma non altro. Una vera riforma della giustizia non sarà digerita.
Fra i punti indicati per un vero cambiamento, l’editorialista indica: «la separazione delle carriere, la trasformazione del pubblico ministero da superpoliziotto in semplice avvocato dell’accusa, revisione delle prerogative e dei meccanismi di funzionamento del Csm, cambiamento dei criteri di reclutamento e promozione dei magistrati, riforma dell’istituto dell’obbligatorietà dell’azione penale».
Panebianco suggerisce un rafforzamento della politica, unica via per superare questo immobilismo. I partiti cioè dovrebbero riacquistare credibilità e autorevolezza attraverso una seria riforma istituzionale per ridare efficienza al governo. Subito mi sono ritornati in mente i nomi della Commissione Bozzi, della Commissione De Mita-Iotti, della Bicamerale presieduta da D’Alema e ora il lavoro del ministro Quagliarello. Sono passati 30 anni e nulla si è fatto.