Ci sono degli articoli, che una volta letti, ti rimangono in testa. È il caso del fondo di domenica “Il potere vuoto di un Paese fermo – Il fallimento di una classe dirigente” di Ernesto Galli della Loggia pubblicato sul Corriere della Sera.
L’incipit dell’editorialista cattura da subito: «L’Italia non sta precipitando nell’abisso. Più semplicemente si sta perdendo, sta lentamente disfacendosi. Parole forti: ma quali altre si possono usare per intendere come realmente stanno le cose? E soprattutto che la routine in cui sembriamo adagiati ci sta uccidendo?».
Galli della Loggia dice anche che pur essendo in testa in quasi tutte le classifiche negative europee siamo «ormai rassegnati all’idea che le cose non possano che andare così, visto che nessuno ormai più neppure ci prova a farle andare diversamente. Anche il tessuto unitario del Paese si va progressivamente logorando, eroso da un regionalismo suicida».
Chiarisce che la nostra situazione non è solo una crisi economica ma è in realtà «qualcosa di più vasto e profondo» che coinvolge aspetti istituzionali, malcostume, interessi consolidati ecc. Una palude che ha portato a una profonda divisione fra le aree del Nord e del Sud del Paese che «appaiono immensamente lontane» logorate da un «regionalismo suicida che ha mancato tutte le promesse e accresciuto tutte le spese».
Una parte corposa di questo suo scritto è dedicata a una riflessione sugli imprenditori italiani descritti come «coloro che negli ultimi vent’anni hanno avuto nelle proprie mani le sorti dell’industria e della finanza del Paese. Quale capacità imprenditoriale, che coraggio nell’innovare, che fiuto per gli investimenti, hanno in complesso mostrato di possedere? La risposta sta nel numero delle fabbriche comprate dagli stranieri, dei settori produttivi dai quali siamo stati virtualmente espulsi a opera della concorrenza internazionale».
Ne ha anche per le banche definite una palla al piede del paese «troppo spesso territorio di caccia per dirigenti vegliardi, professionalmente incapaci, mai sazi di emolumenti vertiginosi, troppo spesso collusi con il sottobosco politico e pronti a dare quattrini solo agli amici degli amici».
Non sfugge alla sua fustigazione la società civile «immersa nella modernità di facciata dei suoi 161 telefoni cellulari ogni cento abitanti ma che naturalmente non legge un libro neppure a spararle (neanche un italiano su due ne legge uno all’anno)».
Chiude dicendo che l’Italia ha «bisogno di una classe dirigente che (…) ripensi un ruolo per questo Paese fissando obiettivi, stabilendo priorità e regole nuove: diverse, assai diverse dal passato». Insomma di un cambiamento vero.
Si può essere d’accordo o meno con il professore, ma è un macigno gettato nella palude.